Intervista a Gabriele Cremonini (1)

Dal medioevo ad oggi, un viaggio nell'enogastronomia e nella cultura

Gabriele Cremonini ha scritto romanzi storici come “Dinda”, “Amanita”, “Sputasangue”. Lavori che, ci tengo a precisare, nascono da un’attività di ricerca accurata, da minuziose indagini storiche condotte in archivi e biblioteche, ma anche cercando testimonianze “sul campo”.
Gabriele ha lavorato per molti anni nel mondo dello spettacolo con Bibi Ballandi e con Lucio Dalla, prima di dedicarsi completamente e con passione alla scrittura.
Parlare di un libro come quello che sto per consigliare è molto facile perché si presenta da solo fin dal titolo: “Maiali si nasce, salami si diventa”. Posso solo aggiungere che questa “enciclopedia del maiale”, ristampata più volte, è stata scritta con Giovanni Tamburini, “storico” proprietario della famosa “Salsamenteria”  di via Caprarie nel centro di Bologna e che la foto in copertina si deve ad un altro cultore del maiale, oltreché allevatore: Oliviero Toscani.

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Mi trovo con Gabriele nella sua “dacia” di montagna, sul lago di Suviana. Ritengo Gabriele un esperto di cultura enogastronomica, anche se lui preferisce definirsi un cronista curioso (ha fatto anche il giornalista per anni, in quotidiani e periodici): di certo è un ottimo divulgatore, e basta assistere ad uno dei suoi tanti incontri con i lettori per rendersene conto. Puoi raccontarmi della Bologna“gastronomica” di quando eri piccolo?

Sono nato nel primo dopoguerra e negli anni Cinquanta mio padre aveva una bottega alimentare nella quale si vendeva tutto ciò che serviva in casa: pane, farine,verdure, frutta e salumi. La pasta secca non era uno dei generi più richiesti, perché era abitudine delle donne farla in casa per tutta la settimana. Ricordo che d’inverno, la domenica, mia madre faceva la sfoglia ripiena, una specie di sfoglia lorda simile a quella fatta in Romagna. Da cuocere in un brodo fatto con poca carne e tante ossa. Faceva un battuto con mortadella, parmigiano, uova, noce moscata, lo passava su metà della sfoglia stesa, metteva sopra l’altra metà e con la “spronella” tagliava dei piccoli quadrati da mettere nel brodo. Non solo pasta, ma qualcosa che sapeva vagamente di tortellino: una festa. In quell’occasione mio padre apriva una bottiglia di vino che “spumava”, e anch’ io, che ero un bambino, potevo berne un dito.

Apro una parentesi sul vino.  Fino alla metà degli anni Sessanta da un misto di uve Albana e Trebbiano usciva un vino per me buonissimo che non trovo più da nessuna parte. Il vino si faceva nelle cantine, dove nei bigonci (piccoli otri di legno) i bambini pestavano l’uva: si diceva che in tal modo il vino diventasse migliore.
Ricordo un sacco di moscerini nella periferia e nel centro di Bologna e odori incredibili per tutta la città.
Si aspettava che l’uva, messa nei tini (capaci ognuno di mezza “castellata”, poco più di 4 quintali) andasse a maturazione, quindi la si“tirava” e la si poneva nelle damigiane.  Poi, quando c’era la luna calante, le damigiane andavano travasate, e quando non c’era più fondo il vino veniva  messo nelle bottiglie.  Ognuno aveva in cantina la sua imbottigliatrice, una macchina che infilava i tappi di sughero, ben unti, dentro al collo delle bottiglie di vetro scuro, perché il vino non doveva prendere luce.
Con le graspe dell’uva che rimanevano dall’operazione si faceva il mezzo vino: venivano aggiunti due bigonci d’acqua e si lasciava maturare una settimana: una bevanda che si conservava per buona parte dell’inverno, e che accompagnava i pasti quotidiani. Ma l’uva non aveva ancora finito la propria vita: mio padre continuava ad aggiungere acqua e si “tirava” ogni giorno il “tarzanello” o “terzanello”, bevanda frizzante (e acidula) da consumare subito, dal vago sapore di vino, che potevo bere anch’io.Poi c’era l’usanza di cuocere i cibi, soprattutto quelli della domenica, dal fornaio: non c’erano più i forni di campagna, negli appartamenti di città, ma solo i fornelli a gas. Il fornaio accettava di cuocere non solo il pane fatto in casa, ma anche torte, arrosti, polli con le patate. Ricordo che per evitare di scambiare i pani, sulle pagnotte veniva impressa l’impronta della chiave di casa.

Inzuppiamo i cantucci di Lamporecchio in un Lambrusco di “origine controllata” anzi “controllatissima”, fatto in casa e portato da un amico di Formigine che ne ha garantito l’autenticità.  Gabriele continua a raccontare:

Qui, tra queste montagne dell’Appennino tosco emiliano, ci sono esempi straordinari di cibi quasi dimenticati: cito solo i mille modi di usare quello che veniva detto il “pan di legno”, le castagne. Io invito spesso i ristoratori amici a fare dei piatti che oggi sono poco conosciuti. Per esempio il“coppo”.  I contadini della collina ma anche del piano, in gran parte mezzadri, portavano al padrone a Bologna,per Natale, il cappone o pezzi del maiale,diciamo il “semifresco del maiale”, mentre a Pasqua arrivavano con le uova da benedire e, appunto, con il coppo, chiamato così dal coppo per i tetti che lo conteneva in forno: un dolce senza lievito, ma ottenuto sbattendo uova e latte, e facendolo montare con sapienza nel forno. Erano forni a legna, quelli di campagna: una volta chiusi non si sapeva come le cose finivano lì dentro,lo si scopriva quando si riaprivano, quindi serviva una certa qual “usta” (diciamo: abilità) per sapere quanto tempo far stare il dolce nel forno, e non c’erano mica orologi a scandire il tempo, in campagna. Sembra di parlare di un tempo lontanissimo, guardando i nostri forni ventilati pieni di spie, invece sono storie proseguite fino a sessant’anni fa.

Caro Gabriele, ti ho cercato perché la tua ricerca nel mondo dell’enogastronomia mi ha affascinato. Non ti nascondo che trovo o almeno spero di trovare in alcuni cibi e in alcune persone una “nobile resistenza” ad un certo tipo di mondo moderno che non mi piace. Cosa ne pensi?

Credo che la cucina moderna più che nella certificazione della provenienza dei prodotti, che è comunque basilare e non ancora estesa a tutto (da dove vengono tante verdure? non basta scrivere “Italia”…), dovrebbe concentrarsi sulla “bontà”.
Bisogna che le materie prime siano buone, non edulcorate dalla pubblicità. Sono molto restio a seguire l’Accademia ma sono disposto a lasciarmi andare alla ricerca del “buon gusto.”
Faccio un esempio: da San Lazzaro a Borgo Panigale, ovvero i due estremi di Bologna, i tortellini si fanno in modo completamente diverso. A San Lazzaro il lombo di maiale del ripieno deve essere assolutamente cotto, a Borgo Panigale diventa rigorosamente crudo.  In mezzo a queste due posizioni “inconciliabili” puoi trovare le più incredibili varianti ma l’importante,alla fine,è che gli ingredienti usati siano buoni.
Poi una cosa che voglio dire è che molti locali di Bologna, coi tavolini all’aperto e un ottimo appeal, dicono di servire – ad esempio –  le tipiche lasagne bolognesi ma non hanno neanche la cucina!  Sono lasagne precotte riscaldate nel microonde. Bisogna anche educare alla qualità le persone, oltre che – naturalmente – dare loro delle informazioni corrette.

Tu, da molti anni, sei uno “storico dei cibi”.  Cosa puoi dirci di questo tuo lavoro di ricerca?

Bisogna fare i conti con i cambiamenti del gusto, che si è modificato. Non sempre siamo in grado di riconoscere la vera qualità perché ci siamo abituati a sapori artefatti da conservanti “di legge”: mi è capitato di vedere persone schifare un salame di Mora romagnola (razza autoctona come la Cinta senese) perché era confezionato “in casa”, senza conservanti…

Da tempo faccio ricerca sul cibo del Medioevo. Ti faccio una rapida carrellata con qualche curiosità del mio lavoro di ricerca. Fai conto che il “bianco mangiare” era considerato il cibo più pregiato da Matilde di Canossa, era una eccellenza per quell’epoca e anche per almeno due secoli successivi. Era quello che definiremmo oggi una zuppa dolce, ma al suo interno c’era anche del pollo fritto. Devi sapere che la distinzione tra il dolce e il salato è nata nella cucina moderna. L’agrodolce era assolutamente normale nei pasti, almeno fino all’Artusi, lui sì vero unificatore dell’Italia, anche se inconsapevole di tale ruolo. Facendo conoscere al Veneto le ricette della Sicilia ha messo in moto un meccanismo capace di abbattere ogni barriera, perché il potere del cibo è superiore di gran lunga ad altri poteri di costrizione.
Mi diverto poi a scoprire piatti che non saremmo più in grado di tollerare, come carni maleodoranti trattate con ogni sorta di profumo di casa (spezie no, chi poteva permettersele nella cucina povera?). Faccio un esempio parlando del “Peposo d’Impruneta”, piatto messo su dai cavatori di cocci in onore del Brunelleschi. Siamo ai tempi della costruzione della Cupola del Duomo di Firenze, l’architetto cerca i materiali buoni per il tetto, e i lavoratori dell’Impruneta ponevano sul fuoco, all’alba, in un paiolo di coccio, carni povere e grasse della vacca, con il solito mazzolino d’erbe, e sommergendo il tutto nel Chianti, lasciando sobbollire per ore. Il pomodoro doveva ancora arrivare, e certo sarebbe servito per ingentilire un piatto aspro, quasi immangiabile per noi oggi se lo rifacciamo seguendo la ricetta originale.

Mi chiedo che fine fanno oggi tutti quegli scarti della lavorazione della vacca, che una volta erano ambiti dalle massaie povere. Ci sono ricettari straordinari per utilizzare trippe (beh, queste ancora si trovano, fortunatamente, e già pulite…), muscoli, rognoni e similia: la cosa curiosa è che questi ricettari non indicano le quantità né tantomeno il peso delle cose da utilizzare, alla massaia bastava dire carota sedano cipolla, sapeva lei quanto mettere di ogni ortaggio. Se penso che oggi indicano persino i grammi di sale… ma oggi molti leggono le ricette, però pochi le fanno, perché prevale il concetto della velocità, mentre la cucina è lentezza. Per fare un buon risotto occorre cuocere il riso per venti minuti, stop. Le scorciatoie non portano al risotto che voglio io. Oggi il cibo è show, specie in tv, ma fra qualche anno ci ritroveremo un esercito di chef disoccupati: non credo saranno cuochi che sapranno proporre buon cibo, perché vedo che a molti mancano le radici culturali; hanno imparato una lezioncina sul come essere originali e stop, mentre il cibo è l’espressione più alta della nostra evoluzione culturale.

Restando alla ricerca, ho scovato altri piatti estinti o quasi, come la “Zuppa del Carcerato” di Pistoia. Tradizione vuole che,quando si macellavano gli animali,le interiora venivano gettate in un rivolo che scorreva proprio sotto le carceri. Così i carcerati, con un uncino legato ad una lunga corda, riuscivano a tirar su qualche pezzo di budella, sempre meglio del pane muffo che passava loro il convento. Ancora, la “Cioncia” che si faceva nella valle del Bisenzio con i rimasugli di carne che erano rimasti attaccati alle pelli avviate alle concerie: quella era fame vera, che chissà da quanti giorni quella pelle girava e rigirava. Piatti fossili, che qualcuno ancora propone in versioni attualizzate, ma per un proprio vezzo, perché mancando un’adeguata preparazione culturale dell’utenza, manca di conseguenza la richiesta.

Sono storie davvero affascinanti che approfondiremo. Le hai pubblicate?

Certo. I miei romanzi sono “intrisi” di storie di cibo, poi ho pubblicato (per Pendragon Editore) diversi libri specifici su temi enogastronomici, dove ho raccontato queste e molte altre storie. “CiBò” è un viaggio in cento tappe nella gastronomia di Bologna e dintorni. “La Mia Bella Romagnola” e “Chianina la Regina”,sono storiedelle vacche romagnola e chianina, per i cultori del genere sono considerati quasi dei disciplinari. Poi ho scritto con l’amico Giovanni Tamburini,come hai già ricordato, “Maiali si nasce, salami si diventa” che nel tempo sta diventando sempre di più un libro di culto, perché ad onta di tutto il maiale, l’animale più simile dal punto di vista genetico all’uomo, continua ad essere molto amato ed apprezzato…

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