Intervista a Lorenzo Kruger

Il tono basso-baritonale e lo charme da neoclassicismo francese

Con l’ormai famoso tono basso-baritonale e lo charme da neoclassicismo francese, Kruger incanta platee gremite da migliaia di persone in tutto lo stivale italiano.
Da Milano a Taranto, da Bologna ad Agrigento, il leader dei Nobraino si muove, arriva, incanta, intrattiene. Un mix di potenza, originalità ed energia, performance tra il teatro e lo spettacolo musicale, monologhi sull’esistenza che sfociano sul sociale, coreografie mirabolanti e d’impatto circense, con tanto di salti sulla folla e corda da trapezista: questa l’esperienza live ad un loro concerto. Ed ecco che ad appena un mese dall’uscita del nuovo album tanto atteso da tutti i fans, Kruger decide di iniziare questo mini-tour in cui i protagonisti sono soltanto il piano, la sua voce, ma soprattutto i suoi testi, nudi e crudi di fronte ad un pubblico abituato a un altro genere di spettacolo.
Lo incontro subito dopo il sound-check, e dopo averlo avvisato che non sarà un’intervista ma un dialogo, una chiacchierata che verterà su Kruger come uomo, prima ancora di leader dei Nobraino.
Quando a De André chiesero se amasse particolarmente definirsi un poeta, lui rispose, riprendendo Benedetto Croce, che fino ai diciotto anni tutti scrivono poesie. Poi, superata quella soglia, le categorie diventano due: i poeti e i cretini. Per questo motivo Faber preferiva definirsi, precauzionalmente, un cantautore. Tu, invece, come ti definisci?

«Un cretino, sicuramente. Nel senso che sono ancora molto in balìa di me stesso in questo percorso e per cui mi faccio anche male. E poi non capisco effettivamente il valore che ha quello che faccio. E soprattutto tendo a non dare molto valore a questo che è un lavoro credo, basso, artigianale. Cioè io scrivo le cose migliori che riesco a scrivere per delle canzoni che devono servire poi a fare intrattenimento. Cerco di mettere la materia migliore che posso, ma l’oggetto finale è poi intrattenimento. Cioè, non è la poesia che cambierà il mondo no?
La mia musica non cambierà il mondo. E non lo dico per autocommiserazione, lo dico proprio perché così è. Faccio un’operazione sicuramente diversa da altri cantautori che cantano l’autocommiserazione dell’uomo, e poi magari di fatto non si autocommiserano veramente ma anzi si gloriano. Anche De André, penso, che scrivendo degli ultimi e della disperazione dell’essere vivo, poi di fatto si glorificasse. Ed è un po’ una contraddizione. Poi sicuramente si sentiva anche un poeta. Altra contraddizione».
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Oggi la poesia è relegata a pochi gruppi di eletti e non esce da chissà quali confini, e quindi il cantautorato diventa l’unica salvezza e ha un ruolo di fondamentale importanza. Chi canta è l’ambasciatore della voce e della coscienza del popolo. E le tue canzoni arrivano più lontano dei testi scritti. La tua voce ha un bacino più ampio di ascoltatori rispetto a dei testi su carta stampata. Come ti senti in tal senso?

«Io ti ringrazio, sei molto gentile e mi lusinghi. Ma ti ripeto, continua a venirmi in mente la parola intrattenimento. Anche quando si parlava di poesia o di poesia più alta, di fatto di cosa stavamo parlando? Si trattava di una scrittura metrica ritmica che veniva letta e ascoltata al posto delle canzoni. Erano dei singoli che venivano letti in piazza, nelle terme. Erano delle canzoni proclamate per intrattenere il pubblico. Era la materia migliore che costruiva intrattenimento. Un po’ come me che costruisco la materia migliore per fare intrattenimento».

Molti tuoi testi sono costruiti tra metafore, sperimentalismi linguistici e giochi concettuali. Lì crei un’immagine. La tua lingua è semplice, ma allo stesso tempo ricercata ed elaborata. A volte un po’ retrò, neoclassica. I tuoi testi sembrano composti appunto con una tecnica di labor limae, di cesello. Ogni parola è omologata per stare lì dov’è posta. Qui mi sorgono spontanee alcune domande: primo, come scrivi e che lavoro c’è dietro la tua scrittura e, poi, come ti relazioni al resto del mondo della musica…

«Io ormai mi confondo. Non so quale sia il limite della buona scrittura, dove sono arrivato io e dove sono arrivati gli altri. Ormai non ci capisco più niente. Nel senso che poi anche lo stile di questi tempi che è abbastanza confusionario, tende un po’ ad ingannare. Molti detrattori di Vasco Brondi, per dire uno, pensano che questo scriva cose a caso. Non sono dentro la visione della scrittura di questi giorni. Lui ha una scrittura eccellente e se non sei scemo capisci il quadro, che è astratto. Però allo stesso tempo questi quadri astratti suggeriscono ai più l’idea che mettere allora quattro frasi ad effetto, una anellata all’altra sia sia sufficiente per scrivere una bella canzone. E’ un clima un po’ confuso e mi chiedo se anche io mi sia lasciato ad andare ad uno stile insieme a tanti altri. Io non lo so più cosa sia la poesia. Forse fino ai 18 anni lo sapevo.

Adesso mi sembra che se io voglia scrivere una cosa, devo starci sopra, devo limarla etc. I testi li tengo a lungo lì, li rivedo. Se vai a chiedere ad un falegname se la sedia che ha fatto sia un’opera d’arte, lui ti risponde di no. Ti dice che ha cercato di prendere il legno migliore,curarne i dettagli e creare una sedia. Però, ecco, in tutto ciò mi sto confondendo nel valutare me stesso».

E quindi come mai questo mini-tour da solo con piano e voce? E’ una prova per te stesso?

«Questo spettacolo è fatto proprio perché in questo momento sto cercando, perché volevo anche vedere se le canzoni erano buone forse. Perché se le suono piano e voce, mi blocco lì ed evito di proteggerle facendo lo scemo sul palco. Oggi, dopo ieri sera a Cesena, è la seconda volta che sono completamente da solo, infatti».
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In un concerto con i Nobraino sei il padrone del palco, un misto tra un giullare e un attore di teatro. Esuberante, sarcastico, ironico. Spesso lapidario. Ma in realtà, dietro questo travestimento smargiasso, chi c’è? Com’è il Lorenzo Kruger della vita quotidiana?

«Questa carriera, questo lento andare avanti è comunque molto faticoso. Di fatto sono ancora nel magma dell’underground sostanzialmente, per cui mi ha preservato da qualsiasi forma di vippismo che non fosse già precedente alla mia carriera da cantante. Nel senso che un po’ distaccato lo sono sempre stato. Per cui accompagno mia figlia all’asilo, cambio i pannolini a quello appena nato, vado a comprar l’acqua. Sono progressista da questo punto di vista e cerco di essere molto operativo in casa. La mia signora lavora per cui siamo operativi. A casa sono molto depresso perché ho bisogno di andare in giro a suonare. A volta si torna da tre, quattro concerti, roba un po’ più grossa, per cui sei in giro, ti diverti…e quando torni a casa è un po’ difficile riprendere la routine dei pannolini e dell’andare a far la spesa».

La tua famiglia ti segue durante i concerti?

«Ogni tanto viene la Lù. L’ultima volta è stata a fine d’estate e siamo stati benissimo. Mi piace portarmele in giro. Poi Olivia è veramente un fenomeno. Suonavo a Cesena per cui sono venute e Olivia ha cantato un pezzo in apertura al concerto. E guarda sono nelle sue mani (sorride, ndr)».

Nuovo Disco. Questa volta il titolo è un numero di telefono e a quanto pare funziona davvero. Perché questo titolo un po’ inusuale? E cosa dobbiamo aspettarci da questo nuovo album? Sarà sempre lo stile Nobraino o ci saranno evoluzioni sia stilistiche che musicali?

Il numero funziona, devo ancora attivarlo però. Per questo disco ho combattuto per fare una direzione artistica molto serrata, per cui ho portato tutti gli arrangiamenti in una direzione e ho trasformato tutti i brani in un filone musicale riconoscibile. Io procedo sempre per lente evoluzioni e non per trasformazioni di chissà quale violenza. Sicuramente è un disco molto diverso dagli altri, perché è molto a fuoco stilisticamente. Mentre prima si passava un po’ di palo in frasca, adesso questo lavoro qui è molto coerente. Perché veramente non c’è altro motivo per fare un disco adesso se non quello di mettere in relazione un gruppo di canzoni sia a livello testuale che a livello di suono. Se uno deve fare dodici canzoni ognuna diversa dall’altra, tanto vale che fai dodici singoli. Questo lo vedo più come disco rispetto agli altri, più di tutti gli altri».

Ed ecco un Lorenzo Kruger che scende dal palco tra i comuni mortali che lo osannano e idolatrano durante un live. Un artista seguitissimo tra i giovani anche sui social come Facebook ( su cui pubblica spesso spezzoni di suoi video homemade) o Instagram. Un Kruger umano, al di fuori da ogni spoglia di cabarettista o cantautore. Palesemente evoluto dai primi anni, tuttavia non del tutto consapevole del ruolo che ha, sia come creatore di emozioni prima che intrattenitore, e sia come fan influencer. Forse non sa ancora quanti giovani oltre ad ascoltarlo, lo assorbono e lo ammirano. Una responsabilità da assumersi quando la propria voce arriva lontano tra gli strati della gente. Carico del suo innato ed eccellente talento, proprio nella vicina Bologna, Kruger è il re di un live intimo e viscerale, in un’atmosfera che incanta ed emoziona il pienone del locale. Diretto, semplice, vero. La sua voce arriva, squarcia. Le sue canzoni funzionano, ed è una conferma. Giudizio del tutto positivo quello del piano e voce che spezza ed arricchisce la produzione artistica di Lorenzo Kruger, uno dei cantautori contemporanei più rappresentativi e originali dei nostri anni. Adesso, aspettiamo il disco e il nuovo tour.

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