Intervista a Steno

La strada ama chi la vive. Molti artisti, dai rapper ai cantautori, tentano l’ardua sfida di rappresentare la crudezza della vita nel ghetto, ma solo in pochi sfuggono dalla retorica e dal grottesco … Il distinguo lo fa la “verità” e di questo sentimento gli occhi di Steno, storico leader dei Nabat, ne sono pieni. Ci troviamo al Vecchio Son, la sala prove di Via Sacco 14 a Bologna, che dal 1998 accoglie la passione dei musicisti.
Steno, in più di quarant’anni con i Nabat, hai raccontato come pochi, il disagio, la rabbia, la gioia e la vita di quella gigantesca rivoluzione che è stato il Punk, io vorrei capire come ti sei avvicinato a quel movimento?

Il primo approccio con il Punk è stato nel 1978, nei locali suonavano “Stayng Alive” dei Bee Gees o My Sharona degli Knack, a tarda serata misero su un brano dei Damned e fu come un colpo di pistola. Nel ‘78 ho indossato il primo giubbotto nero! Mi ricordo poi che quell’anno vidi un servizio di Michael Pergolani, presentatore rock, che ci raccontava di Londra. Lì si parlava del punk e, attraverso quel programma, seguitissimo dai giovani, imparammo i primi rudimenti sul genere.
A tutti gli effetti il punk è stato un vero e proprio movimento culturale che ha interessato poeti e pittori oltre che musicisti. Per non parlare della moda!
I vestiti dimostravano il nostro rifiuto a quello che avevamo intorno. Essere vestiti tutti uguali ci permetteva di riconoscerci tra noi, fare gruppo.

Immagino che in quegli anni non doveva essere facile affrontare tutti gli stereotipi che accusano chi si fa effige dell’originalità e della provocazione, oggi come allora …

Sembra scontato da dire ma allora la società era molto violenta.
Abbiamo dovuto superare tantissimi stereotipi radicati perché il punk era principalmente anarchia. Il nichilismo arrivava dagli artisti stessi.  Eravamo la generazione del grido No Future For You dei Sex Pistols.
Eravamo un gruppo molto misto; tanti ragazzi e ragazze con tante idee di ribellione, e dovevamo stare lontani da certe zone dove si rischiava di prendere (e dare) delle botte. C’erano i militari di leva in libera uscita, i fascisti e anche gli autonomi che non ci capivano.
All’inizio non eravamo tanti… Per farci vedere, per far sapere che anche noi esistevamo, ci univamo e marciavamo per la città.

Come ha reagito Bologna al vostro arrivo? Quali erano i luoghi che frequentavate?

Bologna era un paesone. Io ho 60 anni e sono nato e vissuto nel quartiere San Donato, che è sempre stato un po’ malfamato ma comunque un luogo dove si creavano rapporti di amicizia e fratellanza. C’era un senso di appartenenza fortissimo. Era un luogo in cui ti sentivi protetto, di cui sapevi di far parte. Quando conobbi il punk io sono uscito dal quartiere, perché quell’onda mi ha fatto vedere oltre. I punk in quegli anni si trovavano in centro.
 All’inizio ci trovavamo davanti alla Torinese, che era più o meno come è oggi. Da piccoli eravamo tutti stati lì a mangiare una focaccia con la panna. Poi frequentavamo il Disco d’oro che era l’unico posto in cui arrivava la musica che volevamo ascoltare.  Solo più tardi siamo arrivati all’Osteria dell’Orsa. Abbiamo cominciato a frequentarla quando eravamo già un gruppo più numeroso e il punk, come movimento, iniziava ad affermarsi.
Prima si chiamava Il francese e si mangiavano panini con il pane americano, poi fu venduto e divenne l’Orsa dove suonavano tantissime band Punk.  
Abbiamo tanto contestato gli anni ‘80 ma forse non si stava così male. In quegli anni i ragazzi trovavano tanti lavoretti, soprattutto d’estate quando le scuole erano chiuse. Lavori stagionali ma pagati. Dallo zuccherificio al garzone del meccanico, del panettiere… Io mi son comprato il primo motorino con il lavoro stagionale! E poi c’era tanta musica che oggi non c’è più

Mentre parliamo al Vecchio Son, tra i manifesti di concerti e le scritte sul muro, tanti giovani iniziano a popolare le salette, discutendo di musica, di occupazioni contro questa fottuta alternanza scuola – lavoro.
L’atmosfera è bella e creativa. Forse non è vero che i giovani sono persi, come pensano tanti boomer oggi. Sembra di essere ad un dopo-scuola e Steno è il perno attorno a cui rotea questa nuova linfa vitale.
Steno, non posso che domandarti di parlarti di questi “famigerati” giovani d’oggi?

I
o penso che sono i ragazzi che avremmo voluto allora! Sai quando eravamo punk si immaginava il futuro come quello descritto da George Orwell … La realtà ha superato la nostra più fervida fantasia.  Oggi siamo controllati in tutto quello che facciamo; dove siamo, dove mangiamo, che musica ascoltiamo. Pensiamo a un ragazzo di 14-15 anni. Cosa gli rimane?  Un pianeta alla frutta, carenza di lavoro, una scuola devastata, rimasta ai vecchi tempi, che non forma più nessuno! Eppure i ragazzi che vengono qui, imparano uno strumento musicale e sono molto aperti e sensibili. Per loro alcuni problemi che nella nostra generazione erano devastanti non esistono neanche. Basta pensare al razzismo! Loro oggi hanno tanti problemi da affrontare ma io sono sicuro che ce la faranno.

I Nabat dal vivo allo Stella Nera (Modena)

E poi tu insegni loro cosa è il punk! Io penso che il futuro sia il passato reinterpretato, modificato e rilanciato …

Secondo me il punk cambia nella forma ma non nella sua sostanza travolgente.
I Clash dicevano Go and do (vai e fallo). Tutti i ragazzi potevano prendere uno strumento e suonarlo, bastavano poche conoscenze musicali.
Abbiamo preso in parola i Clash. Nel punk c’era un po’ di tutto. Come adesso con la computer music. Basta essere dei buoni conoscitori di programmi musicali per fare musica. L’importante è avere l’urgenza di vivere. Il punk ha dato il via a quello che sarebbe stato il modo a venire.

E’ molto bello essere entrati in questo tuo mondo … E tu per questi ragazzi sembri proprio un padre.
Credo che i valori della fratellanza e della lotta all’ingiustizia tu li abbia portati nella tua musica e nella tua vita con estrema coerenza e che sia proprio per questo un piacere conoscerti!

Come vuoi concludere questa chiacchierata?

Non avrei mai pensato di parlare di Punk per così tanto tempo!

Intervista di Andrea Manica, fotografie di Simona Toscano

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