Intervista ai Fratelli Mancuso

“Se non avessi il canto, oggi per una via di spine, tu andresti scalzo”.

Il tempo perduto è il tempo ritrovato.

I Fratelli Mancuso della sabbia che scorre dentro la clessidra della vita sono esperti, perché essi, cantori della Sicilia, con i loro antichi strumenti e le voci impregnate di stradine bianche, così ricche di sale e scenari popolari soleggiati, portano verso un dialogo con l’eterno, che ci fa alzare lo sguardo dalle nostre piccole instabilità quotidiane.
Tutto il Teatro Ariston, durante l’esibizione del duo, rimane in un silenzio estatico, assorto in un momento di pura emozione. Questo accade in occasione della consegna ai Fratelli Mancuso della Targa Tenco 2021 come Miglior Album in dialetto per “Manzamà”.
Enzo e Lorenzo ci vengono incontro, nel sole d’ottobre che batte sulla città dei fiori, avvolti nei loro abiti eleganti e in testa cappelli dalla tesa larga. Uomini d’altri tempi.  Ci accolgono gentili e ci mettono subito a nostro agio, cancellando qualsiasi imbarazzo.
Questo premio prestigioso vi viene conferito per il vostro lungo lavoro di ricerca e innovazione nell’ambito della tradizione, un percorso curioso che ci piacerebbe ascoltare. Potete raccontarci dal principio cosa vi ha spinto a intraprendere questo viaggio musicale?

Siamo nati a Sutera, in Sicilia, negli anni ’50. Poi, intorno agli anni ’70, siamo emigrati in Inghilterra, a Londra, dove siamo rimasti per circa otto anni. Lavoravamo in fabbrica, ed era un contesto non facile; però ascoltavamo tantissimi dischi ed era tutta una scoperta. La cosa bella è che poi, nella nostra carriera, molti di quegli artisti che sentivamo su disco registrato, sono diventati nostri amici.
In quella Londra, lavorando in fabbrica e tornando a casa stanchi, stesi sul letto abbiamo cominciato a mettere insieme quelli che erano i frammenti della nostra vita passata. Ricordavamo le voci di donne e uomini al lavoro, i canti che si sentivano nelle chiese, nelle strade, nei campi e nelle polverose mulattiere …
Inoltre, lavorando fuori dal nostro paese, abbiamo ascoltato anche i rumori della città e le voci di tanti altri lavoratori. I ricordi del nostro passato, di quel Piccolo Mondo Antico, si sono uniti ad altri testimoni, ad altre storie e si è creato un prezioso equilibrio creativo.
D’altronde i tuoi ricordi d’infanzia e di gioventù sono solo i tuoi e rimangono dentro di te per sempre, in un mondo fantastico che ricostruisci nel tuo immaginario personale ma che è sempre diverso dal calco originale.

Un Amarcord: i nostri ricordi sono sempre mediati dalla fantasia. Essere distanti dalla vostro paese d’origine, ma sempre insieme, ha solidificato il vostro rapporto?

La nostra è una Fratellanza che sottintende un’ unione spirituale, non solo di sangue.
Noi ci capiamo al volo e ci sosteniamo l’un l’altro ed è su questo che si basa il nostro modo di cantare, l’unione delle nostre voci. Quello che raccontiamo è il volto della nostra Sicilia in bianco e nero, che abbiamo vissuto nella prima parte della nostra vita, che è una storia di grande amore e crudeltà.

In questo momento ci sembra che stiate parlando della vostra musica come due registi che stanno raccontando un film …

E’ vero! E per due ragioni principali: la musica, a nostro parere, è un discorso corale come fare una pellicola. Il successo di un lavoro infatti è dovuto a tutte le sue componenti, così nel nostro caso, la musica è composta da diverse cooperazioni che rendono unico il prodotto finale.
La seconda ragione è proprio quella dimensione estatica, di racconto del ricordo. Noi da bambini eravamo testimoni di scene antiche; la quotidianità era il lavoro a stretto contatto con la natura, dove c’era una sintonia arcaica tra uomini e animali e, quando cantiamo, questi ricordi riaffiorano, come appunto in una scena di un film. Chiudiamo gli occhi e ci lasciamo trasportare, le nostre voci entrano l’una nell’altra e la dimensione della nostra musica diventa mistica.

Questa immagine evocata è molto interessante, vi confessiamo che alle nostre orecchie inesperte il vostro spettacolo è sembrato un Te Deum “popolaresco”: l’alto e il basso, il sacro e il profano, il colto e il popolaresco si incontrano e si scontrano, in questo abisso profondissimo che è la musica della nostra tradizione … gli spettatori, abituati alla velocità della musica pop, il concerto lo vivono come un viaggio metafisico. Che rapporto avete con il pubblico?

La nostra musica non ha basi specialistiche, non abbiamo una formazione professionistica e non abbiamo frequentato nessun conservatorio. Siamo completamente autodidatti. Quindi il nostro intento non è cercare un pubblico specifico, ma emozionare chiunque vuole ascoltarci. Cantiamo in questo modo perché è quello che abbiamo dentro, nato dalla nostra esperienza e lo esprimiamo nel modo più coerente possibile.

Cari Enzo e Lorenzo, la vostra musica ci riporta in un mondo di “sogni in bianco e nero” scavando nei nostri ricordi più atavici, per contrasto poniamo allora una domanda un po’ ardita; cosa ne pensate delle canzoni come “manifesto politico” (che per loro natura sono attanagliate nell’attualità)?

Guarda, delle volte, è più potente una buona immagine al posto di mille parole. Quando ci fu la diaspora in Cile, nel ’73, nacquero tanti gruppi che infiammavano la sensibilità degli ascoltatori con i loro testi, su tutti il grande Victor Jara. Ma niente è stato più significativo e dirompente per noi come una canzone di Pablo Milanés che evocava il desiderio di rivedere una piazza piena di bambini… Un’immagine davvero importante. Ora non vogliamo certo paragonarci a questo mostro sacro, ma certamente abbiamo seguito questa direzione!

Un’ ultima domanda, prima di lasciarvi… La nostra rubrica, vuole raccontare l’antico legame tra i luoghi, i sapori, gli incontri e l’arte. Per questo, di solito, il teatro dei nostri incontri è la tavola dove si dice sempre la verità!
Curiosando nella vostra biografia abbiamo scoperto che questo è un tema che vi è molto a cuore, tanto che vi siete cimentati in concerti enogastronomici…

Concerti per bocca e orecchie…

Siamo molto curiosi

Alcuni Hotel o ristoranti predisposti, ci facevano trovare una cucina ben fornita (ma qualche ingrediente lo portavamo noi, per esempio in Austria siamo arrivati con una cassetta di melanzane!) e poi cucinavamo la cena per il pubblico e solo dopo suonavamo. L’idea era mangiare insieme e suonare, in un incontro unico; così da poter raccontare ancora di più il nostro legame con la terra. Un’ esperienza bellissima ma molto faticosa!

Faticosa ma intensa esperienza!Eccoci alla fine del nostro incontro, pieni di gratitudine per essere entrati nel mondo dei Fratelli Mancuso, nella loro musica così ricca di suoni intensi e acuti che viaggiano al sud del sud dei diavoli a dispetto dei santi, salutiamo Enzo e Lorenzo, confidando loro che ci piacerebbe capire davvero il loro segreto, come poter evocare così intensamente le immagini con la musica, poi guardiamo il loro volto gentile e ci accorgiamo che un segreto deve rimanere tale per celare tutto il suo inesplicabile mistero

Intervista di Andrea Manica & Raffaella Vismara

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