PETER PERRETT
The Cleansing
Il metodo per non invecchiare? Keith Richards dice che ora la sua ricetta è una vita sana e andare sempre in chiesa la domenica. Il “nostro” Gino Paoli nazionale racconta che il segreto per la vita eterna è bere una bottiglia di Whiskey e fumare due pacchetti di sigarette al giorno ma soprattutto dormire sempre dodici ore di filato.
Peter Perrett, artista inglese con un passato ingombrante tra inventiva e dissolutezza, ex cantante e chitarrista degli The Only Ones, sembra aver trovato il suo metodo per sopravvivere aggrappandosi alla musica.
Questa è per noi una gran fortuna perché, all’età di 73 anni, Perrett sforna “The Cleansing”, ovvero il suo album più rappresentativo.
Qui, ormai, siamo proprio su un altro pianeta rispetto ai tempi di “Another Girl, Another Planet”, l’inno che ambiguamente parlava di eroina non con la grazia crepuscolare dei Velvet Underground ma con quella verve power pop ‘chitarrosa’ sulla scia di Johnny Thunders nel periodo solista, ovvero il marchio di fabbrica di quei gruppi che proprio non amavano il suono dei sintetizzatori. Se allora gli “The Only Ones” non erano certamente tra i gruppi più innovativi e iconici del periodo, sicuramente l’evoluzione cantautorale del “nostro” ha mostrato un cambio di passo qualitativamente encomiabile.
Il nuovo album “The Cleansing” è dunque una parabola di vita tra morte e rinascita. Perrett costruisce 20 perle piene di istintiva semplicità rock’n’roll.
La voce “dylaniata” di Perrett si tinge sempre più di rauca follia trasformandosi in una lama affilata sull’onda delle chitarre che, questa volta, abbandonando qualsiasi velleità progressive rock per lasciarsi andare al puro delirio del paisley underground.
Basta un ascolto del singolo manifesto dell’album: “I Wanna Go With Dignity” per annusare il cambio di passo.
“Andarsene con dignità” dice Perrett e noi ascoltatori pensiamo, di rimando, che questa sia la prerogativa dei grandi, capaci di offrire anche in tarda età il loro meglio, con il coraggio di non impastarsi in formule “giovanili” (anche se di grande successo). Come Jhonny Cash con le “American Recordings” o David Bowie con “Blackstar”, anche Perrett suona il suo requiem crepuscolare “cercando” di trovare la salvezza in fondo al tunnel.
Lo stile è ricercato e, dietro gli occhiali scuri, l’uomo gioca con la morte affrontando i temi essenziali della vita, passando dalle cavalcate elettriche alle ballad; è il caso per esempio di “Fountain of you”, la canzone più bella del disco; una “amara riflessione sulla breve fortuna del successo, con atmosfere (e la voce!) che ricordano il Lou Reed più romantico e lirico, quello di alcuni capitoli alla “Coney Island Baby”.
C’è tanto in questo lavoro: le chitarre ruvide e l’Anti-folk, New York e Londra, Billy Bragg e Steve Wynn. The Cleansing si dimostra sicuramente un album importante del 2024.
KIM DEAL
Nobody Loves You More
Nel nostro eterno presente musicale in cui le grandi band tornano per rassicuranti “nuove uscite”, come per esempio The Cure che si presentano con un bellissimo ultimo album di cover dei Cure che, seppur intriganti e romantiche, sempre inediti che sembrano “cover” restano. Nel 2024 sono le ‘madrine’ elettriche dell’alternative a suonare la carica dell’innovazione, non appollaiandosi sugli allori ma immettendo nuova linfa vitale nel circuito della musica.
Un esempio di questa forza evolutiva è sicuramente l’ultimo album di Kim Gordon, già bassista dei Sonic Youth, che con “The Collective” coraggiosamente unisce la forza sperimentale della sua “comfort zone” rumoristica a chiavi di letture molto moderne e inaspettate: industrial, punk, trip hop, trap?… c’è tanto in questo disco (già cult) che suona, con meraviglia, un po’ come se Billie Eilish fosse la leader dei Nine Inch Nails. Un’altra eroina, che si distacca nettamente dalla “casa madre” delle filastrocche dreamy elettriche e dai moog acidificati degli Stereolab per entrare in atmosfere molto più languide e suadenti, è Laetitia Sadier, come dimostra il suo ultimo lavoro pubblicato nel 2024 dal titolo: “Rooting For Love”.
Nel recente concerto “in solo” avvenuto al Freakout di Bologna il 5 novembre, la Sadier ha dimostrato una grande “grazia” ma anche un certo impaccio, quasi come per timore di essere così a nudo sulla scena, senza le impalcature vertiginose del rock che comunque continua per fortuna a concedersi, saltuariamente, con i suoi Stereolab.
Un’altra musicista che in carriera si è sempre votata alla sperimentazione, uscendo di continuo dai cliché, è Kim Deal che torna sulle scene con l’album “Nobody Loves You More”. Su Kim Deal, fondatrice dei Pixies (che sono freschi di pubblicazione di un nuovo album “The Night the Zombies Came”) e “Deus ex Machina” delle Breeders, risuona l’ingombrante giudizio di Kurt Cobain: “Spero che a Kim Deal sia permesso di scrivere più brani per i Pixies, perché Gigantic è il brano migliore del gruppo e lo ha scritto Kim”. Cobain purtroppo non potrà mai sapere che la Deal, nel frattempo, ha anche surfato su vari generi, dimostrando capacità di composizione e adattamento invidiabili anche in nuovi e “pericolosi” percorsi musicali. Si parte con la title-track, ballata orchestrale con giocosi e malinconici richiami retro-pop che si mangia in un sol boccone tutto il recente “French touch” alla Sébastien Tellier e ci riporta in quelle atmosfere oniriche delle vecchie ballate del Brit Pop, alla Blur di “The Universal” per intenderci.
Scaruffi racconta che la dote maggiore di Kim Deal portata nei suoi gruppi è “l’imprevedibilità armonica”, non potevamo quindi aspettarci, in un lavoro solista, un album a rotta unica; infatti si passa dai momenti Diy “alla Kimya Dawson” di “Wish I Was” ai momenti abrasivi come “Big Ben Beat” che richiama i Big Black di “Kerosone”, storica band del compianto, amico e collaboratore di Kim Deal, Steve Albini. Nell’album ci sono momenti sognanti e slowcore sulla scia dei primi Low come in “Come Running”, per poi tornare indietro ai vecchi amori schitarranti e garage con un brano elettrico come “Disobedience”. Se questo lavoro non ha la istintiva esplosività e coesione dei primi capolavori dei Breeders, quali “Pod” e “Last Splash”, “Nobody loves you more” ci fa comunque godere della creativa di questa “Little Trouble Girl” che la riconferma sempre un artista assoluta della musica alternativa.
HOLOGRAPH
In tre anni sono uscite solo una manciata di canzoni di questa giovane band fondata in Sudafrica ma che attualmente milita ad Amsterdam, però ogni brano è un piccolo gioiello e questa formazione si annovera con merito in quel pugno di realtà attuali presenti sul panorama internazionale che, pur non compiendo alcuna rivoluzione, sanno mescolare le carte da Dio dando nuova vitalità al Post Punk.
La prima canzone degli Holograph giunta alle nostre orecchie è stata “Swedish Summer”; il tiro tra post punk e dark wave, accompagnato dallo spoken word, può richiamare formazioni sulla cresta dell’onda alternativa come i Dry Cleaning, ma in realtà già si capisce che la voce di Ines Soutschka, ha diversi assi nella manica ancora da svelare così come il suono del gruppo che alle classiche melodie new wave accompagna un finale danzereccio che richiama le hit disco- punk britanniche, all’ ‘Atomic’ di Blondie. Gli Holograph non hanno paura di macchiarsi le mani con l’anima più “Kitsch” della ‘Blank Generation’ e l’aura della prima Debbie Harry si avverte ancor di più, nella divertita e divertente “Microscopic Beings”, secondo brano dell’unico Ep della band prodotto finora, motivo trascinato da un andamento saltellante che rimanda alla Smithsiana “Charming Man”. Più darkettona la New Wave di “From Within” che ricorda la “Gallowdance” di Lebanon Hanover. A questo punto dell’album arriva il cambio della voce leader e “Hollow Mountain”, quarto brano dell’Ep, è il capitolo meno riuscito tra quelli ascoltati fino ad ora, figlio ancora troppo acerbo di certe atmosfere oscure del ‘songwriting’ alla Bauhaus. L’Ep si conclude con Glass Eyes, classico brano new wave, potente e monocromatico, alla Molchat Doma.
Recentemente gli Holograph hanno pubblicato un nuovo singolo (ci lascia sperare in un prossimo primo album?) dal titolo “Green Sky”. Questi ragazzi con semplicità inaudita sparigliano ancora una volta le carte in tavola pur portando avanti una loro granitica e invidiabile coerenza musicale e ci regalano una dolce e bellissima cavalcata Shoegaze, con chitarre alla Wlliam Reid (Jesus and Mary Chain) in cui la cantante degli Holograph, con voce suadente ed etera, ci mostra tutte le sue qualità migliori.
Speriamo di sentir presto altra musica di questo interessante progetto.
Articolo di Andrea Manica